Confrontandosi con Thérèse Raquin, il celebre romanzo naturalista di Émile Zola, Stefano Ricci stringe saldamente la mano di Donatella Finocchiaro e la conduce in quella che è una rivoluzione copernicana conoscitiva, in un sistema orbitale antropologico che parte dalla figura di Thérèse e, attraverso il Tempo, fotografa le fragilità del nostro quotidiano.
La torbida storia di adulterio, delitto e rimorso, che Zola definiva un «grande studio psicologico e fisiologico», nel quale ha fatto «su due corpi vivi ciò che i chirurghi fanno su dei cadaveri», assume nello spettacolo di Ricci le caratteristiche di un’indagine dei nostri giorni, un vagabondaggio nell’acre coscienza di poter sopravvivere dopo la tragedia in un mondo privo di intelaiatura emotiva.
Ricci destruttura l’opera di Zola per raccontare il tempo che abitiamo oggi, a partire dal senso di colpa che condiziona i comportamenti dei personaggi come un’affezione, un’attitudine corporale e febbrile.
Il teatro fisico e catartico di Ricci diventa dunque lo spazio per l’elaborazione di un lutto, di un’assenza fisica e morale, la riscoperta dell’arte della responsabilità dopo che il sole si è fermato.